Nel quarantesimo anniversario della Fondazione del Centro internazionale di studi gioachimiti, il Comitato scientifico del Centro ha deciso di attribuire uno speciale riconoscimento al prof. Alexander Patschovsky per il suo contributo al progresso degli studi su Gioacchino da Fiore.
Per l’occasione vorrei delineare per sommi capi il corso delle sue ricerche, che, avviate negli anni ‘60 del secolo scorso, nell’ultimo trentennio si sono decisamente concentrate sull’opera dottrinale e sull’edizione critica di Gioacchino.

 

Formatosi presso le università di Gottinga, Vienna e Monaco di Baviera, AP ha ottenuto a Monaco l’abilitazione all’insegnamento, equivalente alla nostra libera docenza.  Dal 1966 al 1988 ha lavorato come Mitarbeiter (collaboratore, nel senso di ricercatore a tempo pieno) dei Monumenta Germaniae Historica, antica e prestigiosa istituzione dedita allo studio e all’edizione delle fonti storiche medievali, con sede principale prima a Berlino e poi, dopo la guerra, a Monaco di Baviera.

Dal 1968 al 1988 è stato redattore della rivista dei Monumenta, “Deutsches Archiv für Erforschung des Mittelalters”, caratterizzandosi per la cura dedicata alle recensioni e alle segnalazioni bibliografiche (in vent’anni oltre un migliaio, inconfondibili per competenza critica e spirito acuminato).
Ai Monumenta conobbe Sybille, per breve tempo Geschaeftsfuehrerin (direttrice amministrativa) dei Monumenta; dal loro matrimonio sono nati Isabella e Gregor. Diventato professore ordinario di storia medievale all’università di Costanza, vi ha insegnato dal 1988 fino al pensionamento (2005).
Fondamentale per l’intero corso delle sue ricerche l’incontro con Herbert Grundmann, presidente dei Monumenta, del quale è stato l’ultimo allievo.
Autore di numerosi e importanti articoli e saggi, raccolti dopo la sua morte in tre volumi, Grundmann fu principalmente uno studioso di storia intellettuale e religiosa.
In tale ambito segnò una svolta con la sua opera fondamentale uscita per la prima volta in tedesco nel 1935 e tradotta in italiano nel 1974 con il titolo di Movimenti religiosi nel Medioevo. Una recente antologia pubblicata in inglese raccoglie alcuni suoi scritti su inquisitori, eretici ed eresie medievali, considerati nel quadro più ampio delle tendenze sociali e religiose del loro tempo, con specifica attenzione da un lato per credenze e forme di vita degli eretici, dall’altro per inquisitori e procedure da loro attuate per individuare uomini e donne sospettati di eresia, in primo luogo catari e valdesi.
Tra questi scritti di Grundmann spicca quello dedicato al tipo dell’eretico nella percezione degli inquisitori e dei cronisti medievali.
Il tipo dell’eretico è appunto un modello, molto spesso creato a partire da antichi cataloghi eresiologici, fatto proprio e tramandato dagli inquisitori per accertare e confermare l’esistenza di eresie spesso mai esistite come tali nella realtà. Ne consegue che lo storico, per conoscere dottrine e stili di vita dei processati, deve leggere in controluce le fonti inquisitoriali, avvalendosi per quanto possibile di testimonianze letterarie spesso scarne e di altri indizi, disseminati qua e là, relativi a quanti fuoriuscivano dai quadri stabiliti della cristianità medievale.

In linea di massima, chi è bollato come eretico lo è più per lo stile di vita che per le idee, per ragioni pastorali più che dottrinali. Gli esiti processuali dipendono poi almeno in parte dalle procedure adottate, dai formulari e protocolli stabiliti per gli interrogatori, durante i quali questioni poste dagli inquisitori in latino erano tradotte in volgare per gli inquisiti, le cui risposte in volgare erano poi nuovamente tradotte in latino per essere verbalizzate. Un unico ufficio concentrava in sé prerogative che nell’attuale nostro sistema giudiziario risultano distinte fra investigatore, pubblico ministero e giudice. L’assommarsi di funzioni nelle mani di un unico soggetto permetteva di individuare e colpire più agevolmente uomini e donne ritenuti devianti e come tali pericolosi – le volpi che devastano la vigna, secondo la celebre immagine del Cantico dei Cantici(2,15).
I tre volumi su eretici ed inquisitori pubblicati da Alexander Patschovsky mentre lavorava ai Monumenta si dispongono nel solco tracciato da Grundmann. Essi documentano uno stile peculiare di lavoro, caratteristico anche della successiva impresa dell’edizione critica delle opere di Gioacchino. Sono studi che si fondano su di una conoscenza diretta dei manoscritti, non di rado individuati da lui stesso e spesso di difficile decifrazione. Un’attitudine, questa, che ci rinvia ancora a Grundmann, che in vista delle sue edizioni critiche di Gioacchino (di fatto mai portate a termine) cercò innanzi tutto di raccogliere sistematicamente informazioni sui manoscritti presenti nelle biblioteche europee.
Tale attenzione va sottolineata, in quanto le edizioni di fonti sono sempre meno praticate nell’ambito della medievistica oggi alla moda, anche per l’insieme di competenze e per l’impiego di tempo che richiedono.

La spinta alla produttività, alimentata dalla crescente affermazione in ambito universitario di metodi di valutazione sostanzialmente quantitativi, non aiuta.  Si preferisce far circolare “edizioni di lavoro”, presentate come provvisorie: un modo per cercare di giustificare in anticipo inadeguatezze e insufficienze, che le rendono in ultima analisi inaffidabili.

Il primo dei tre saggi, uscito nel 1968, ha per oggetto una compilazione riguardante eretici ebrei e anticristo allestita verso la metà del secolo XIII da un domenicano non meglio identificato attivo nella diocesi di Passau, città della Baviera il cui territorio ecclesiastico si estendeva allora per la maggior parte in Austria. Essa rivela la presenza in quel territorio di numerosi cristiani appartenenti al movimento formatosi a Lione negli anni ‘70 del secolo XII intorno alla figura di un laico di nome Valdesio, caratterizzato da uno stile di vita attento al modello neotestamentario, dalla lettura diretta delle Scritture e dalla predicazione dottrinale da parte dei laici.

Nella compilazione dell’Anonimo domenicano di Passau le sezioni di maggiore interesse aprono prospettive su esperienze e giudizi personali dell’ignoto autore, testimone non solo dello stile di vita dei valdesi, ma anche delle consuetudini e dei costumi ecclesiastici nel territorio diocesano.
Un secondo saggio, pubblicato nel 1975, riguarda gli inizi di un’inquisizione stabile in Boemia, e si fonda sullo studio di un manuale inquisitoriale praghese della prima metà del secolo XIV, tramandato da un manoscritto (Helmstedter 311), appartenente al nucleo più antico della Herzog August Bibliothek di Wolfenbüttel (gioiello del sistema bibliotecario tedesco, creata nel xvi secolo e comprendente oltre dodicimila manoscritti). Il manoscritto riporta un testo dal titolo: Modus iste est procedendi inquisitorum, ossia: “Questo è il modo di procedere degli inquisitori”. Si tratta di un manuale – anche in questo caso allestito da un compilatore anonimo – creato sul modello di analoghi manuali prodotti in precedenza, il più celebre dei quali resta quello del domenicano Bernard Gui, reso famoso dal Nome della Rosa. Il manuale di Wolfenbüttel contiene una serie di documenti, databili tra il 1318 e il 1350 circa, importanti per la conoscenza delle procedure dell’inquisizione papale operante a Praga. Patschovsky non si limita a pubblicarlo criticamente, ma nell’analizzarlo svela il contesto storico in cui prese forma, e mette in luce divergenze e tensioni intraecclesiastiche, rivelate dalla drammatica vicenda di un certo Riccardino di Pavia, protetto dal vescovo di Praga, preso di mira dall’inquisizione papale per un suo libro giudicato eretico e infine, dopo un lungo scontro giudiziario in cui gli inquisitori episcopali tentarono inutilmente di mediare, condannato al rogo.
Il manuale diventa così una testimonianza che, ben oltre gli aspetti paleografici e filologici, mostra conflitti insospettati tra poteri, derivati dal pesante affermarsi a Praga di un’inquisizione papale stabile, percepita dagli ecclesiastici praghesi come invadente rispetto a consuetudini locali consolidate.
Nel 1979 Alexander Patschovsky pubblica un terzo volume, riguardante “Fonti per l’inquisizione boema nel secolo XIV”.

Il titolo è da saggio erudito, ma in realtà l’opera è avvincente. Essa sta a testimoniare che la ricerca e lo studio dei manoscritti possono presentare ancora, per chi vi si dedichi con competenza e passione, insospettati motivi di curiosità, di gratificazione personale e di felicità intellettuale. Nel presentare gli studi di Patschovsky in una rivista americana, il collega e amico Robert Lerner, già frequentatore dei Monumenta e formatosi anch’egli idealmente alla scuola di Grundmann, ha delineato in maniera avvincente le origini del volume. Tutto prende avvio da una breve nota a pie’ di pagina in un articolo del 1955 di uno studioso domenicano. Vi si accennava a due frammenti di pergamena, persi di vista prima e dopo quella rapida segnalazione. Recatosi di persona nell’abbazia austriaca di Heiligenkreuz, Patschovsky scopre che i frammenti si trovano ancora nella biblioteca abbaziale. Si tratta solamente di due fogli, conservatisi solo grazie all’improprio riutilizzo come copertine di libri. Sotto i suoi occhi si rivelano come frammenti di verbali di interrogatori condotti dall’inquisitore domenicano Gallus di Neuhaus, attivo presso la sede episcopale di Praga per circa vent’anni, dal 1335 alla morte. Fondandosi sulle tracce fornite in due ulteriori articoli di studiosi cechi, Patschovsky riesce poi a reperire in altre due biblioteche – situate oggi rispettivamente in Austria e nella Repubblica Ceca – altri frammenti staccati dal medesimo manoscritto, per un totale di sei fogli. E poiché i fogli sono numerati, gli è possibile stabilire che in origine il registro dell’inquisitore ne doveva contenere almeno duecento. I sei fogli riportano i nomi di non meno di duecentoquaranta inquisiti per eresia e di quattordici condannati al rogo. Procedendo nel calcolo, Patschovsky arriva a una conclusione inaudita e sbalorditiva: il registro di Gallus rivela che lungo il ventennio di attività mandò a processo migliaia di uomini e di donne accusati di eresia, mai definiti propriamente per le loro idee, ma in prevalenza riconoscibili come valdesi per convinzioni quali la negazione del purgatorio e il rifiuto del giuramento. Si tratta di una scoperta di estrema importanza innanzitutto in ordine alla diffusione dei valdesi, tradizionalmente considerati una presenza locale, limitata all’Italia settentrionale, alla Francia meridionale e alla Lorena, mentre invece risultava ora testimoniata una loro presenza numericamente impressionante in territori mai prima considerati: in Baviera e in Austria e di lì in Boemia, Moravia, Slesia fino alla Transilvania, passando attraverso l’Ungheria e la Slovacchia, fino al Mar Baltico, attraverso la Pomerania. Lungi dall’essere un fenomeno minoritario, i valdesi rappresentavano intorno al 1335 non meno di un decimo dell’intera popolazione di lingua tedesca della Boemia.
L’attività di un inquisitore come Gallus non poteva che destare terrore nei territori in cui agiva. Ben consapevole dei sentimenti e dei comportamenti degli inquisiti – dalla resistenza muta alla delazione, passando attraverso una gamma notevole di risposte intermedie – Patschovsky cerca di non farsi coinvolgere emotivamente e si sforza di mantenere lo sguardo freddo, distaccato, avalutativo dello storico che cerca di comprendere più che di giudicare.

Lo teorizza egli stesso in uno dei numerosi articoli che coronano i tre saggi appena ricordati. Uno di essi riguarda la carriera di Corrado di Marburgo, predicatore della crociata, padre spirituale di Elisabetta di Turingia e principale patrono della sua canonizzazione, ma soprattutto inflessibile cacciatore di eretici, nominato delegato papale nel 1231 (il primo in assoluto a ricevere tale incarico) e assassinato nel 1233. Corrado è stato spesso accusato di eccessi crudeli e di fanatismo cieco. Pur non volendo essere indulgente nei confronti di Corrado, Patschovsky non si accoda a queste condanne sommarie. Insiste invece sul ruolo di Corrado in quanto funzionario occhiuto, che contribuisce a fissare e applica pervicacemente il diritto e le procedure propri dell’inquisizione papale; procedure di cui è il primo a fare uso. Potrebbe a prima vista sembrare che la prospettiva sia in fondo assolutoria, in quanto evita di qualificare Corrado come quel “mostro” che la storiografia precedente aveva visto in lui. A me pare invece che, sospendendo il giudizio morale su di lui, voglia semplicemente informare sul modo in cui l’inquisitore freddamente concepiva e scrupolosamente praticava la sua missione.

L’attenzione di Patschovsky si è volta ad un tempo verso inquisitori ed inquisiti, si comprendono così i suoi legami con Robert Lerner, Anne Hudson, Peter Biller e, tra gli studiosi di ebraismo medievale, Alfred Haverkamp, Israel Yuval e Ora Limor. Sospinto dal comune interesse per le credenze dei valdesi Patschovsky incontrò presto anche Kurt-Victor Selge, teologo luterano e storico della teologia interessato fin dagli anni ’60 (cosa rara, allora, in quegli ambienti tedeschi) a Francesco d’Assisi e ai movimenti religiosi coevi. Dalla loro collaborazione nacque nel 1973 una raccolta di fonti per la storia dei valdesi.

In questo ambito di studi, la storia del cristianesimo non dovrebbe ridursi, come spesso accade, a “leggenda nera” degli apparati repressivi. Attraverso e dietro i discorsi degli inquisitori, dietro le loro proiezioni frutto di atavici pregiudizi eresiologici, si dovrebbero infatti pur ricercare i tratti propri delle forme di vita di minoranze oppresse – valdesi e catari, spirituali e fraticelli, beghini e begardi, ebrei – che pagarono spesso con la vita l’adesione a credenze e pratiche che già solo per questo meriterebbero di essere recuperate oltre le letture e i condizionamenti mentali di coloro che li misero sotto torchio.

A tale prospettiva Patschovsky è rimasto tenacemente fedele, come mostra la pubblicazione avvenuta solo di recente di un documento alla cui edizione si era impegnato da tempo: gli atti del processo subito da Giovanni di Castiglione e Francesco d’Arquata, due fraticelli partiti dal Gargano tra il 1352 e gli inizi del 1353 per un pellegrinaggio a Santiago de Compostela.
A Montpellier furono individuati, perquisiti, arrestati e poi consegnati al cistercense cardinale Guillaume Court, detto il cardinale bianco. Con sé avevano due documenti per loro vitali: una professione di fede in cui si respingevano le decisioni di Giovanni XXII in materia di povertà evangelica e si proclamava la santità dell’Olivi, il massimo erede del messaggio profetico e apocalittico di Gioacchino, santo per i fraticelli, eretico per la gerarchia ecclesiastica, che ne aveva fatto disperdere i resti per impedire pellegrinaggi di devoti sulla tomba; e un martirologio, comprendente un elenco di centotredici nomi di Spirituali, fraticelli e beghini, uomini e donne di Catalogna, Linguadoca, Provenza e Italia messi a morte come eretici dal 1318 in poi. La stessa sorte toccò infine a loro due.
Ottenuta nel 1988 la cattedra universitaria a Costanza, Patschovsky prese molto sul serio le possibilità e le responsabilità che gli venivano dal ruolo di docente di storia medievale nella città nota soprattutto per aver ospitato il Concilio (1414-1418) che segna la soluzione del Grande Scisma d’Occidente . Proprio all’inizio del Concilio giunse a Costanza il riformatore praghese Jan Hus. Credeva di poter disputare le proprie idee davanti ai padri conciliari, fu immediatamente incarcerato nel grande convento domenicano sulla riva del lago (oggi un lussuoso albergo), processato e infine, non volendo ritrattare, condannato al rogo. Per dirla in modo sommario e approssimativo, Costanza ha un debito permanente nei confronti di Praga e del suo martire, sicché non deve stupire che all’indomani della sua recente costituzione l’università abbia voluto creare un legame con l’antica e prestigiosa Università Carlo IV di Praga.

E chi, meglio di Patschovsky, avrebbe potuto attivare rapporti produttivi fra le due istituzioni?
A partire dagli anni ’90 la collaborazione si sviluppa su diversi piani. Innanzi tutto su quello della collaborazione con i maggiori medievisti della repubblica Ceca. Che io sappia, alle origini sta la conoscenza e l’amicizia con Ivan Hlavacek e Frantisek Smahel. Figura di primo piano della medievistica boema e attivo militante nella primavera di Praga legata al nome di Dubcek, dopo la drammatica fine di quell’esperienza Smahel era stato epurato. Dopo la caduta del Muro riguadagnò la propria posizione, venendo anzi chiamato alla guida della rinnovata Accademia praghese, emblema vivente del nuovo corso. Con loro, Patschovsky avviò un progetto di collaborazione mirante a offrire a giovani studiosi cechi la possibilità di ottenere a turno una borsa di studio a Costanza in vista del conseguimento del dottorato di ricerca.
Entro tale quadro di collaborazione giunse a Praga anche Pavlina Rychterova, attualmente ricercatrice a Vienna presso l’Istituto per la Ricerca sul Medioevo dell’Accademia austriaca delle Scienze.

La dr.ssa Rychterova va ricordata qui in particolare perché una ventina di anni fa insieme ad altri due studiosi, allora assistenti di Patschovsky, raccolse in un CD, riversato poi nel web, i suoi saggi più importanti in materia di eretici ebrei e anticristo. In genere, una data importante nella carriera di uno studioso si celebra con una raccolta di saggi a stampa. Se ricordo bene, i tre scelsero l’allora inusuale formato CD anche per indicare con esso l’attitudine pionieristica di Patschovsky nell’utilizzo degli strumenti elettronici.

Da tempo egli aveva dato avvio alla sua attività di ricerca riguardante Gioacchino, ma prima di passare ad essa, avviata nell’ultimo scorcio degli anni ‘80, mi preme ricordare il lavoro immenso da lui compiuto per rendere accessibile in tedesco la monumentale opera di Smahel dedicata alla Rivoluzione hussita: un’impresa colossale, che, tradotta dal ceco in tedesco sotto la guida di Patschovsky e da lui meticolosamente rivista e corretta prima della pubblicazione in una collana dei Monumenta, assomma a tre volumi per complessive 2286 pagine: un’opera che abbatte il muro linguistico che aveva in precedenza impedito di valorizzare le ricerche condotte in Boemia su Jan Hus e gli Hussiti, di fatto lungamente riservate ai pochissimi studiosi che ne conoscevano la lingua (in Italia solo un paio).

Nel campo di studi per cui oggi propriamente gli viene consegnato il premio, Patschovsky ritrovava l’amico Robert Lerner, che nella scia di H. Grundmann e di B. Tőpfer già da tempo aveva messo al centro dei suoi interessi la questione del nesso eresia/profezia. (Questione – diciamolo en passant – riguardante il profilo di Gioacchino sui due lati, in quanto non solo fu, come ci ripetiamo fino alla saturazione, “il calabrese abate di spirito profetico dotato”, ma anche non perse occasione per mettere in guardia la Chiesa romana dal pericolo rappresentato da catari e poveri di Lione).
Ma come trasformare un comune interesse in un progetto di ricerca? L’opportunità venne da una serie di fortunate circostanze.
Nella seconda metà degli anni ‘80 nel Comitato scientifico del Centro studi gioachimiti,
diretto da Cosimo Damiano Fonseca, e di cui facevano parte tra gli altri Selge, Rusconi e il sottoscritto, si era cominciato a ragionare sull’idea di un progetto di edizione degli Opera omnia di Gioacchino. Toccò a me delineare nel 1987, su richiesta di Roberto Rusconi, un piano provvisorio – assolutamente velleitario.

Conservo quei fogli, riguardandoli di recente mi sono reso conto che, se fosse stata avviata sulla base di quei primi appunti, l’impresa si sarebbe fermata presto, non c’erano le basi. L’apporto di Patschovsky dette plausibilità e consistenza all’idea. Non è ora il caso di ricordare qui le varie tappe. Grazie al costante sostegno del Centro, al finanziamento della DFG a Selge per l’edizione del Salterio delle dieci corde, all’Humboldt-Preis ricevuto da Lerner, si sono potuti organizzare per un trentennio tra Germania e Italia seminari di lavoro con cadenza pressoché annuale.
In effetti, il progetto di un’edizione critica di Gioacchino non poteva essere estraneo ad AP, giacché era l’altro grande lascito di Grundmann rimasto incompiuto. Autore ancora giovanissimo di un’opera geniale su Gioacchino, tradotta in italiano oltre trent’anni fa, Grundmann aveva stretto un accordo con Ernesto Buonaiuti in vista della pubblicazione tra Italia e Germania delle edizioni critiche delle opere di Gioacchino. Tale accordo da parte italiana era stato rispettato: presso l’Istituto Storico Italiano per il medioevo Buonaiuti riuscì a pubblicare due opere, la terza fu edita più tardi per cura di Arsenio Frugoni. Oberato dagli impegni e dalla preoccupazione di fornire un solido fondamento filologico alle imprese per cui si era impegnato, Grundmann invece non riuscì a completare nessuno dei suoi progetti editoriali gioachimiti. Era quindi logico che l’ultimo dei suoi allievi prendesse parte al varo dell’impresa, informalmente avvenuto, se ricordo bene, in occasione del Congresso tenutosi a San Giovanni in fiore nel settembre 1989.
Fu allora che Patschovsky si pose pienamente a disposizione del progetto che, coordinato da KVS dall’inizio fino alla vigilia della sua recente scomparsa, trovò presto in Patschovsky l’autentico
spiritus ductor.

Ricordo ancora le prime conversazioni nei locali dell’albergo Dino’s, quando Patschovsky, su suggerimento di Roberto Rusconi, mi spinse a candidarmi per la borsa Alexander von Humboldt, da godere ovviamente, nel caso avessi vinto, sotto la sua guida scientifica presso i Monumenta a Monaco di Baviera. Ne uscì la prima edizione critica partorita dalla nostra Commissione, i Dialogi de prescientia Dei, pubblicati a Roma presso l’ISIME nel 1995, primo frutto del longevo accordo di collaborazione stipulato fin dal 1990 tra ISIME e CISG, a firma rispettivamente di Gilmo Arnaldi e Salvatore Oliverio.

Quando arrivai a Monaco, Patschovsky mi consegnò un’opera che risultò poi indispensabile per l’edizione che dovevo fare. Grundmann aveva lasciato una trascrizione completa dell’intera Concordia Novi ac Veteris Testamenti, condotta sulla base di un manoscritto che considerava degno di fede. Pioniere dell’uso dell’elettronica nel campo della ricerca storica, Patschovsky aveva appena fatto riportare quella trascrizione in formato elettronico, presso il Centro di Calcolo dell’Università di Costanza. Dal meccanografico erano così usciti cinque pesantissimi volumi, ciascuno dei quali formato da centinaia di fogli di carta a modulo continuo traforati ai lati. Ciascuna parola presente nel testo era riportata in un indice alfabetico comprendente tutti i termini e tutte le occorrenze. Ciò rendeva facili e fruttuose le ricerche lessicali e dottrinali. Autentico maestro, incoraggiante quanto esigente, lettore attento, amante della discussione, della controversia e della polemica, Patschovsky era capace di definire eccellente un lavoro presentatogli e nel contempo di proporre una dozzina di pagine di riflessioni e minute correzioni.
I primi suoi contributi originali in materia di profetismo gioachimita risalgono al periodo compreso tra la fine degli anni 80 e gli inizi degli anni ’90. In essi comincia cautamente ad accostarsi alla ricezione del lascito di Gioacchino entro minuscole cerchie nella Germania del XV secolo.
Grosso modo dal 2000 in poi si dedica con rigorosa sistematicità e in prima persona al lavoro dell’edizione critica.
Il suo contributo risultò decisivo innanzi tutto per condurre in porto l’edizione critica dello Psalterium decem cordarum, che Kurt-Victor Selge tratteneva da tempo presso di sé, benché i tempi per la stampa fossero maturi.

Il Salterio, come peraltro la Concordia, ha presentato evidenti difficoltà editoriali, dovute non tanto alla vastità della tradizione manoscritta, quanto all’avvenuta individuazione in essa di diversi strati redazionali. Gioacchino lavorò parallelamente per circa un quindicennio alle sue tre grandi opere, scrivendo e riscrivendo, correggendo e modificando; ma prima di arrivare alle ultime correzioni, fissate, per così dire, sul letto di morte, l’opera era già entrata in circolazione, sicché di alcuni passi i manoscritti attestano versioni differenti. Si poneva così una questione delicata in vista dell’edizione del testo, giacché se allo storico preme individuare lo sviluppo interno dei pensieri a partire dalla prima idea, dal primo schizzo di un’opera, al filologo (almeno: al filologo “vecchio stile”) preme fissare il testo nella forma più prossima a quella voluta dall’autore come definitiva.
Da storico, Selge rimase a lungo incerto sulla strada da scegliere e sul modo di restituire le stratificazioni testuali. Credo che l’intervento di Patschovsky sia stato decisivo per sbloccare l’edizione e per offrire un testo a stampa che nei passaggi decisivi presenta in sinossi le diverse redazioni. Una scelta da lui compiuta nuovamente per la propria edizione della Concordia.

Come ho accennato prima, Grundmann aveva lasciato edizioni di lavoro di testi che credeva a un passo dalla pubblicazione. Patschovsky si è avvalso delle sue edizioni provvisorie del Trattato sulla Vita e sulla Regola di s. Benedetto e della Concordia; nonché dell’edizione in fieri del Commento all’Apocalisse allestita da Selge con la collaborazione di Julia Eva Wannenmacher; ma ovviamente tutto ha dovuto essere rivisto, ripensato e diversamente argomentato e giustificato. Basti pensare al lavoro istruttorio da lui compiuto per venire a capo dei rapporti intercorrenti fra i manoscritti della Concordia (quarantadue, contro i dieci del Commento all’Apocalisse e i sei del Salterio), tradottosi in un volume autonomo e preliminare rispetto all’edizione critica, contenente descrizione completa e classificazione dei manoscritti.
Impressionante il lavoro compiuto in meno di un ventennio: in ordine, le nuove edizioni critiche dell’Esortatorio ai giudei, del Trattato sulla vita e la regola di Benedetto, della Concordia (quattro volumi per oltre 2000 pagine complessive), di un gruppo nutrito di scritti minori e infine, un paio di anni fa, di tutti gli scritti minori sull’Apocalisse. Manca ancora, ma è in stampa, l’edizione critica del grande Commento all’Apocalisse. A quel punto mancherà solo l’edizione del cosiddetto Liber Figurarum, affidato alla cura di Marco Rainini, recentemente entrato nella Commissione per l’edizione delle Opere di Gioacchino, abbassandone l’età media …
Sul piano propriamente interpretativo Patschovsky ha proseguito e rigorizzato la linea di Grundmann.

Lo si vede in particolare per il suo trattamento del Trattato sulla vita e la regola di Benedetto. Grundmann lo aveva interpretato come un’opera unitaria, entro cui rotture salti incoerenze sarebbero dovuti fondamentalmente a incertezze e scarti esistenziali e dottrinali dell’abate, registrati per così dire nell’opera in presa diretta. Tale valutazione era stata ampiamente argomentata da Grundmann nella sua inedita introduzione a quella che avrebbe dovuto essere la sua edizione critica, introduzione pubblicata una ventina d’anni fa in un fascicolo di “Florensia”, la rivista scientifica del Centro durata quasi un ventennio.

Essa fu messa in discussione alla fine degli anni ‘90 da un acuto lavoro di Valeria De Fraia, che propose di considerare il Trattato come un ”testo contenitore”: non, quindi, come opera a sé stante, bensì come prodotto composito, patchwork nato dall’assemblaggio di frammenti disparati (parti di sermoni, riflessioni liturgiche, commenti alla regola), che possiamo immaginare come inizialmente raccolti nella stessa carpetta, così come oggi un autore potrebbe raccogliere in un solo raccoglitore una serie di materiali sparsi riguardanti il medesimo tema. Temperamento polemico, Patschovsky ha replicato energicamente a tale proposta, così come è stato protagonista di vivaci discussioni anche su altri testi di Gioacchino, in particolare sulla datazione dell’Esortazione ai giudei e sull’identità del testo trinitario condannato dal Concilio Lateranense IV. Temi che ha affrontato con la passione e la costanza che lo contraddistingue, che lo ha sorretto e ancora lo sostiene nella grande impresa che, non ci fosse stato lui, non avrebbe certo ripreso il largo.

Gian Luca Potestà